A volte, persino Beyoncé deve invocare la Beyoncé che è in lei.
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“Ho avuto i miei alti e bassi, ma trovo sempre la forza interiore per rialzarmi. Mi hanno dato dei limoni, ma io ci ho fatto una limonata”, recita la voce di un’anziana nel finale di ‘Freedom’, vigoroso inno all’emancipazione che vanta la partecipazione di Kendrick Lamar e campiona un canto di prigionia risalente all’epoca della lotta per i diritti civili. Si tratta di un momento cruciale, che consente di comprendere pienamente il peso emotivo e culturale del sesto album di Beyoncé, un’opera capace di riscuotere un successo travolgente superando i confini stilistici.
Si dice che questo discorso, pronunciato dalla nonna di JAY-Z Hattie White nel giorno del suo 90esimo compleanno, abbia ispirato l’idea alla base di un progetto così radicale, accompagnato da un film e dalle parole della poetessa somalo-britannica Warsan Shire. Profondamente legati con l’identità e la narrativa di Queen Bey, in quanto donna, nera e moglie, il disco e la controparte visiva finiscono per costituire il capitolo più eloquente e forse significativo di una produzione stellare.
A renderlo così efficace e universale sono i dettagli. Si tratta di un lavoro impetuoso, sprezzante, tormentato e vulnerabile, ma anche sperimentale, energico, trionfale, spiritoso e audace: una vivida testimonianza personale pubblicata senza preavviso in un periodo di attenzioni mediatiche e sofferenze private. È inoltre la dimostrazione di una tenacia incrollabile. In ‘Freedom’, Beyoncé raccoglie il proprio fuoco interiore tra le lacrime, ruggendo “I’ma keep running ’cause a winner don’t quit on themselves” [“Continuerò a correre perché una vincitrice non si arrende”]. Questa inscalfibile caparbietà sul piano narrativo, vocale, strumentale e personale ha avuto il merito di elevarla dallo status di leggenda a qualcosa di più vicino a una vera e propria supereroina.
Se ogni singolo istante di Lemonade merita di essere studiato e celebrato (si pensi ai toni auto-punitivi di ‘Sorry’, agli spunti politici di ‘Formation’ o agli impulsi creativi portati in dote da nomi della caratura di James Blake e Karen O), l’apice dell’ambizione musicale è forse rintracciabile in ‘Don’t Hurt Yourself’, un duetto con Jack White dalle suggestioni psych-rock impreziosito da un sample dei Led Zeppelin. “This is your final warning” [“È l’ultimo avviso”], dice Queen Bey in un attimo di snervante calma. “If you try this shit again/You gon’ lose your wife” [“Se ci riprovi/Perderai tua moglie”]. In aggiunta, White scandisce parole intrise di saggezza: “Love God herself” [“Ama Dio per ciò che è”], alludendo al fatto che possa trattarsi di un’entità femminile.