Cupo e allergico ai compromessi, un classico che ha ridato vigore al rock.
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Pubblicato nel 1987, l’epocale esordio dei Guns N’ Roses non è semplicemente un album dalle tinte scure, ma anche un progetto che non rinuncia mai a esercitare un impatto devastante, indipendentemente dalla scomodità delle tematiche trattate. Le canzoni sulla droga non parlano solo di sballarsi, quanto piuttosto di perdere completamente i sensi (‘Mr. Brownstone’, ‘Nightrain’). In maniera simile, quelle sul sesso non si limitano a celebrare l’atto fisico, ma arrivano a immortalarne le dinamiche di potere (‘Anything Goes’). Se un inno come ‘Paradise City’ si staglia su un fondale di sporcizia e miseria, una ballata della caratura di ‘Sweet Child O’ Mine’ cela un senso di paranoia derivante dall’idea che una presenza così pura non possa effettivamente essere reale.
Proprio come i Rolling Stones avevano rappresentato un’alternativa ai gruppi più inclini al pop nei primi anni ’60, la band californiana era considerata un antidoto al dilagare del pop-metal nelle classifiche e in radio. Appetite for Destruction riuscì a eguagliarne il successo commerciale e a soppiantare le formazioni che proponevano quel sound, facendo spazio a un’estetica cruda e preparando il terreno per l’esplosione del grunge sopraggiunta qualche anno più tardi. Se talvolta un approccio privo di regole può restituire una sensazione di libertà, nel caso dei Guns N’ Roses l’effetto era quello di una minaccia.
“Immagino che il genere fosse catalogabile come hair metal, o cose simili. Per quanto mi riguarda, fin da subito quest’album è esistito fuori da quel contesto. Sembrava che tutti gli altri gruppi volessero fare questo disco”.