Il debutto della “sacerdotessa”, in equilibrio tra radicalismo e rispetto per il passato.
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Prendendo ispirazione dal pop degli anni ’60 e da figure come Bob Dylan e Mick Jagger, Patti Smith era per certi versi una tradizionalista. La determinazione, l’intensità e il modo in cui dava voce alla ruvidità della nascente scena artistica e punk newyorkese con l’innesto della poesia e del jazz, citando Rimbaud e Kerouac, la rendevano però un’esponente intransigente dell’avanguardia. Prodotto da John Cale dei Velvet Underground, il suo esordio del 1975 esplorava questo spazio e si spingeva oltre.
La magia di Horses sta nel fatto che, pur rivendicando implicitamente la propria parentela con la storia del rock, il disco cercava di usare la musica come un oggetto mai visto né sentito prima. Aprire la cover di ‘Gloria’ dei Them col verso “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” [“Gesù è morto per i peccati di qualche persona, ma non i miei”] significa ribadire il concetto che il rock è la lingua di un popolo rinnegato. E quando le apocalittiche visioni di ‘Land’ lasciano spazio a ‘Land of 1000 Dances’ di Chris Kenner, questo accade perché l’espressione delle giovani generazioni attraverso i corpi è in qualche modo sacra. Le improvvisazioni sillabiche sul finale di ‘Birdland’ suggeriscono che a volte le parole non servono o non sono sufficienti.
“Il formato esteso, il ricorso alla spoken word, il modo in cui si è cimentata con una band live: in questo senso, è un progetto innovativo al punto da offuscare il concetto di disciplina”.